Helene Appel

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L’incalzante sviluppo della tecnologia dell’immagine ha negli ultimi anni rivoluzionato la cultura visiva: l’inseguimento di  una rappresentazione sempre più realistica del mondo e l’ossessione del pixel  per la mimesi finisce per innescare l’effetto contrario, una patinata perfezione che dichiara orgogliosamente la propria origine artificiale. Le astratte combinazioni di codici all’origine delle animazioni digitali riescono infatti a riprodurre molto dettagliatamente qualsiasi texture di superficie, ma la fredda tridimensionalità dell’insieme che ne risulta fallisce nel ricreare la sensazione di consistenza e peso che contraddistingue la fisicità della vita. Per contro, il regime estetico instaurato dai nuovi canoni dell’immagine e l’onnipresenza mediatica della visione come surrogato dell’esperienza hanno radicalmente mutato le nostre modalità percettive condizionando più di quanto ci si aspetterebbe la ricezione della realtà. In un mondo dominato dagli oggetti e dalla comunicazione virtuale dove l’atto del guardare diventa la forma più immediata di appropriazione e di appagamento del desiderio, anche la pittura ha rinegoziato il proprio rapporto con se stessa e con la storia dell’arte attraverso nuove forme di iperrealismo che reintroducono a pieno titolo la rappresentazione tra le forme espressive contemporanee.

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In linea con questo ritorno alla figurazione, la pittura di Helene Appel (Karlsrue, 1976) instaura profondi rapporti d’affinità elettiva con gli aspetti più ordinari e banali della quotidianità celebrando il valore assoluto della contemplazione e della conservazione nell’era dell’impermanenza. I suoi soggetti privilegiati, suddivisi in serie tematiche potenzialmente infinite che esplorano ogni possibile variante di un’epifania che accade come fatale casualità, sono i residui delle abitudini umane trasfigurati in poesia dalla sublimazione del loro aspetto più prosaico. Reti da pesca, stracci, scarichi di lavelli da cucina, acqua di mare, tagli di carne, chicchi di riso o liquidi versati su un piano sono infatti  dettagliatamente dipinti in scala 1:1 su tele lasciate senza imprimitura le cui dimensioni assecondano e circondano il verosimile ingombro degli oggetti reali. Ogni sguardo che l’artista dedica al suo modello si traduce in una pennellata esatta e misurata che ne rivela una specifica qualità formale e che richiede all’osservatore un tempo d’indagine altrettanto dilatato per confrontarne l’aderenza con il corrispondente archetipo mentale di riferimento.
Appel viviseziona con impeccabile lucidità analitica le circoscritte porzioni del visibile su cui decide di concentrarsi per restituirne l’analogo pittorico dopo aver messo in campo tutti gli artifici elaborati da secoli di pittura trompe l’œil. Così le impercettibili velature di colore che individuano una scheggia di vetro solo tramite i suoi riflessi o che identificano un velo d’acqua nell’impercettibile addensarsi dei suoi contorni sembrano scongiurare la definitiva sparizione del soggetto e riaffermarne l’apparente fisicità in un pezzo di bravura che discende dai più classici topos pittorici. In un’immaginaria progressione verso l’accumulo di materia, all’estremo opposto si collocano i sanguinolenti frammenti di carne cruda realizzati ad encausto dove striature e agglomerati di sostanza cromatica densa modellano esattamente le fibre muscolari dell’animale sacrificato, le sue fioriture di grasso e la candida politezza dell’osso che li tiene assieme. E proprio quando la non-esistenza virtuale di questi solenni depositi di contingenze visibili sembra prendere il sopravvento e la tentazione di avvicinarsi al dipinto e di toccarlo per accertarsi della sua reale natura diventa irresistibile, si impone all’attenzione la trama grezza della tela come ineludibile presupposto  dell’oggetto dipinto riconducendolo nel limbo delle immagini. Nella cruda compresenza dialettica tra presentazione e rappresentazione il velo dell’illusione si squarcia nel momento della sua massima esaltazione rivelando la sofisticata matrice concettuale del lavoro di Appel.

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Il quadro quindi si mostra come oggetto e come dispositivo di coscienza che indaga la struttura del visibile insinuando il dubbio nella sua simulata plausibilità e materializzando il vuoto che si cela come un rumore di fondo negli interstizi mentali che separano i vari piani di rappresentazione. A questo modo l’atto del dipingere viene analizzato e scomposto nei suoi elementi costitutivi e si attua nell’irrisolvibile tensione tra la riproduzione fedele e le incessanti possibilità di trasformazione di una materia che diventa immagine. Così la trama grezza della tela sembra competere per credibilità e presenza con le finzioni che ospita, mentre a loro volta le figure sembrano volersi mimetizzare nell’ordito aggiungendo ulteriori pattern astratti al suo regolare intreccio di fili. Verificando in ogni suo dipinto il difficile equilibrio tra astrazione e raffigurazione, l’artista trova nella loro assoluta complementarietà la propria inconfondibile cifra espressiva e la ribadisce come una dichiarazione di poetica che possa definitivamente smentire il sospetto di obsolescenza che da tempo sembra gravare sulla pittura. Liberata dalla pressione ideologica che attenta alla sua legittimità, l’immagine dipinta può finalmente dispiegare il proprio potenziale evocativo e far scaturire impensabili microsistemi esistenziali anche dai soggetti più insignificanti. Così i tessuti, le plastiche accartocciate, i cibi e le acque di rigovernatura dipinti da Appel trascendono i limiti del genere della natura morta a cui appartengono per diventare metafore di contemplazione e silenzio esperite come intime pratiche di visualizzazione che permettono alla realtà di espandersi fino a manifestare le implicazioni più delicate e soggettive in cui forse risiede il senso ultimo del guardare.