Raid | Museo per Piccioni. Una libera incursione artistica per risignificare l’abbandono.

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Le periferie cittadine sono sempre più frequentemente attorniate da fabbriche e capannoni in disuso che si ergono come lugubri testimoni dei recenti stravolgimenti dell’economia globalizzata e dei conseguenti cambiamenti produttivi e sociali: consegnati a un destino di lenta rovina e oblio, sono spesso ricettacolo di degrado e atti vandalici che ne accelerano la fatiscenza. Da tali considerazioni e dalla fascinazione per queste dismesse cattedrali del lavoro nasce Raid | Museo per Piccioni, un libero format di interventi artistici nei satelliti post industriali come proposta di riqualificazione creativa delle aree urbane che rischiano di perdere la loro identità e come affrancamento dalle logiche dogmatiche del mercato artistico. Ideatori e animatori del progetto sono Alessandro Brighetti e Giulio Cassanelli, fondatori dell’Artist-run space fAt Studio in cui coabitano e lavorano in sinergia con altre associazioni spontanee.

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La prima incursione di Raid ha avuto luogo a Bologna il 28 gennaio 2017 durante Arte Fiera, quando un manipolo di artisti per 6 ore (dalle 10:00 alle 16:00) si è appropriato di una fabbrica dismessa dell’hinterland in cui ciascuno, stabilita la propria sala, è stato invitato a interpretare lo spazio in modo non invasivo con materiali recuperati in loco senza alcun limite o vincolo espressivo se non il rispetto dell’integrità estetica e strutturale del luogo ospitante. L’azione, strutturata come atto d’offerta non finalizzato all’esposizione, è stata fruibile esclusivamente via web (in streaming e in differita) tramite webcam full-HD consegnate a ogni artista associato a un canale nominale per la diretta online. Il non luogo fisco, inteso come spazio urbano alla deriva e come segreto avamposto artistico, espandendosi nel terreno neutro del web acquisisce un’identità emblematica e ubiqua che racchiude in potenza tutte le tipologie di processo artistico, come scultura, installazione, happening, performance o street art, per celebrare l’intrinseca necessità di esistenza dell’opera. Nell’incorporeità della fruizione si fondono quindi l’abbandono a cui sono destinati i lavori site specific e lo sgretolamento della struttura che li ha generati, sublimando l’estemporaneità di una pratica artistica che ironicamente individua la propria esclusiva destinazione d’uso in un museo per piccioni, gli attuali beneficiari delle opere e del loro contenitore.

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Accompagnati da Alessandro Brighetti, siamo andati ad esplorare questa location misteriosa, uno smisurato limbo semantico in cui le creazioni degli artisti vivono in simbiosi con i naturali assestamenti dei materiali da costruzione e con i desueti reperti logistici e strumentali che testimoniano la repentina interruzione del ciclo produttivo. Lo stabilimento, ex fabbrica di freni per moto costruita negli anni ’60, è dislocato su due livelli: al piano terra troviamo vani immensi un tempo destinati agli impianti produttivi dove l’illuminazione naturale proveniente da grandi vetrate e ampi lucernari si diffonde in un candore  zenitale che azzera ogni ombra, mentre al secondo piano si collocano in labirintica successione le stanze, più ridotte, destinate a uffici, archivi, mensa e spogliatoio per gli operai. L’atmosfera ovattata ci induce a procedere in silenzio per riuscire a percepire le variazioni sonore dei passi che calpestano schegge di vetro, terriccio o selve di cavi elettrici divelti, l’eco di un’infiltrazione d’acqua, lo scricchiolio di un lento cedimento materico. Nessuna intrusione acustica sembra provenire dall’esterno, il tempo è originario e selvaggio come il lento procedere dei rampicanti che hanno infestato il cortile centrale e che insinuano ogni pertugio per riguadagnare l’interno, lo spazio appare incommensurabile ma razionalmente scandito dagli incroci ortogonali delle strutture portanti il cui andamento è sottolineato da una kafkiana alternanza di bianco, giallo e rosso, ambiguamente sgargianti nonostante l’incuria.

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In quest’immenso teatro ogni particolare sembra acquisire rilevanza per diventare segnale, monito o appiglio fantastico, come un surreale computer che giace in una pozzanghera, un accumulo di tubature azzurre abbandonato da qualche saccheggiatore o il suggestivo crollo di una pila di contenitori in seguito ad un imprecisabile smottamento. Il lavoro degli artisti si inserisce in questa slabbrata rete semiotica aggiungendo nuovi gangli significanti che riconnettono tra loro le residue pulsazioni vitali del luogo per trasformarlo in una visionaria officina del pensiero che ne riformula l’unità di sistema operativo. Perlustrando le vestigia di un apparato sociale ormai obsoleto si incontrano quindi, tra gli altri, le riflessioni sulla pittura di Matteo Fato, una stanza-grotta interamente disegnata da Roberto Paci Dalò, il fiabesco castello di candidi mattoni ignifughi assemblato da Emilio Rojas e la gigantesca corona-cerchio magico di Giovanni Termini realizzata con sedie e fili conduttori.

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All’ingiunzione di Fato “non pitturare invano” fanno da contrappunto le esplosioni di vernice bianca con cui Andrea Nacciarriti spettacolarizza casuali accumuli oggettuali o la patina dorata con cui Marco Ceroni nobilita e astrae alcuni elementi isolandoli dall’insieme. Altri interventi hanno una valenza più rituale, come gli ondeggianti mosaici di piastrelle policrome composti da Francesca Pasquali, gli stendardi innalzati da Laura Renna in onore di defunte piante da arredamento ormai secche o la performance a sfondo politico di Arthur Duff che rende solenne l’invettiva contro l’elezione presidenziale di Donald Trump. In questa poliedrica celebrazione delle potenzialità ispiratrici del disordine e del caso risulta ancora più straniante il contributo di Ivana Spinelli, che meticolosamente riordina l’ex stanza del sindacalista immergendola in un impossibile tempo retroattivo destinato a nutrire le future intemperie. Il percorso si conclude idealmente con la monumentale installazione di Alessandro Brighetti e Giulio Cassanelli, che in un ampio salone ritagliano nel guano di piccione depositatosi nel corso degli anni sul pavimento una precisa porzione rettangolare corrispondente all’area di sottotetto dove un’affollata colonia di volatili ha stabilmente preso dimora. Al centro di questo tappeto organico campeggia un cono rovesciato di mangime per uccelli modificato con un colorante alimentare verde smeraldo come beffardo invito rivolto agli unici fruitori del museo a collaborare alla produzione artistica.

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Il progetto RAID – Museo per piccioni – non è quindi l’epitaffio di un sistema sociale e politico irrimediabilmente perduto ma un atto simbolico che concretizza l’auspicio di una rinascita in grado di restituire dignità estetica e funzionale alla nostra preziosa archeologia industriale ed è concepito come  un format riproducibile in ogni città che ospita rassegne o fiere internazionali d’arte contemporanea per offrire un punto di vista veramente alternativo e radicale rispetto all’arte e alle sue dinamiche.

http://www.fatstudio.org/raid/

Emilio Rojas. The Lions Teeth And/Or The World Was Once Flat.

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Quanto siamo complici del passato che ereditiamo e della storia che consumiamo nel presente? Il Vecchio Continente, che oggi si sente assediato e invaso da inevitabili e inarrestabili flussi migratori, è ancora totalmente impreparato a gestire l’emergenza e a ipotizzare efficaci strategie di futuro sostenibile: i cosiddetti Paesi Emergenti, sinora considerati alla stregua di impersonali serbatoi di risorse, appaiono ora come pericolose e incontrollabili entità le cui emanazioni umane, culturali e materiali si sono già profondamente insinuate nell’immaginario collettivo occidentale e nelle sue abitudini. Ciò che forse sfugge ancora alle nostre coscienze è che la capillare penetrazione di questa nuova linfa vitale è iniziata ormai cinque secoli fa, quando l’esplorazione del mondo e la fiducia in un antropocentrismo in realtà parziale e unilaterale indussero gli europei a interagire con la naturale distribuzione delle specie viventi innescando nuove esplosive relazioni. Così, mentre il pomodoro viaggiava dalle Ande all’Italia per trasformarsi nel cardine della nostra identità gastronomica e l’Europa scongiurava la carestia grazie alla patata e al mais provenienti dal Sudamerica, l’altro diventava letteralmente carne della nostra carne in un sotterraneo processo di ibridazione che rievoca antichi sacrifici misterici e ancestrali riti di fertilità.
Su queste tematiche verte la prima personale italiana del giovane artista messicano Emilio Rojas, presentata da GALLLERIAPIÙ, che attraverso animazioni in stop motion, video, performance, scultura, fotografia, testi e disegni incentrati sullo studio metaforico del dente di leone (tarassaco) indaga le implicazioni storiche e le persistenze del colonialismo nella contemporaneità. I semi e i fiori di questa pianta considerata infestante sono infatti la materia prima di un viaggio ideale che collega botanica, anatomia e geografia intesi come campi d’azione performativa di un corpo esperito come strumento critico di rivelazione di traumi rimossi, storie soppresse e narrazioni nascoste all’interno delle attuali questioni socio-politiche. Nell’arco di due anni l’artista ha raccolto 15000 denti di leone e più di mezzo milione di semi che nella performance e nell’installazione site-specific in galleria sono i catalizzatori di un innesto erotico tra specie vegetali da cui l’uomo, nudo e indifeso, sembra farsi fagocitare e fecondare.

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Il punto di partenza è il video The Lion’s Teeth, incalzante sequenza di immagini in cui un vecchio volume intitolato “History of Europe since 1500” si apre su una mappa delle rotte oceaniche percorse dai colonizzatori spagnoli in cerca di nuove terre di conquista. Al ritmo di un’incalzante colonna sonora le pagine, perforate e inghiottite dall’incontenibile espansione di una fioritura di denti di leone, diventano teatro di una violenta lotta tra frutti tropicali che si inglobano a vicenda prima di marcire e scambiarsi i semi mescolando le loro più intime carnosità. Trasformando la guerra in amplesso, Rojas plasma una dirompente metafora del crogiolo umano che fermenta nell’inconscio delle nostre categorie mentali  per restituirne l’immanenza come brivido sottopelle e come urgenza tellurica.

Il libro, nella sua valenza di testimonianza di un sapere sistematizzato e politicizzato, è il principale materiale con cui l’artista sviluppa e concettualizza le intuizioni espresse dal video declinando il leitmotiv del tarassaco in una poetica rete di implicazioni semantiche. La Biblioteca (De)Coloniale è quindi un tunnel di tomi internazionali stampati tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento inerenti al viaggio, al corpo e alla colonizzazione: allineati su un piedistallo e attraversati da un buio orifizio circolare, nel loro insieme formano un potente cannocchiale spazio-temporale al termine del quale si scorgono l’immagine di Bianca di Castiglia, prima finanziatrice delle esplorazioni di Cristoforo Colombo, e le riprese video di una recente performance in cui Rojas appare sottomesso e ammanettato proprio da un libro aperto e forato.
Preziose riproduzioni fotografiche tratte dalle raccolte di acquerelli commissionate nel XVI secolo dal naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi ad artisti specializzati per documentare le specie botaniche oggetto dei suoi studi sono il supporto per l’incisione senza inchiostro di frasi lapidarie che rafforzano l’ambiguità tra la resistenza e la diffusione delle piante infestanti e i rapporti di forza sottesi alle ondate migratorie umane. Intimidatorie come la rivendicazione di un dolore troppo a lungo soppresso, le parole si scolpiscono indelebilmente nella coscienza di chi legge innescando una vertigine di domande che ripercorrono a ritroso la storia collettiva del mondo come in un rito sciamanico di guarigione. “Le mie radici sono forti come le tue paure” recita l’artista, il cui principale obiettivo è forzare i confini delle abitudini mentali coinvolgendo il pubblico in un’esperienza diretta che crea legami vitali tra la quotidianità, la pratica creativa e l’azione politica come primaria strategia di sopravvivenza culturale nell’era del post colonialismo. Se da un lato quindi Rojas sembra aggredire violentemente lo spettatore rendendo lampante la compromissione di ciascuno nelle questioni socio-politiche più attuali e scottanti, dall’altro si fa interamente carico della sofferenza e dello smarrimento che suscita sublimandoli attraverso il proprio corpo per suggerire una possibile catarsi finale.

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Questo meccanismo è molto chiaro nella performance realizzata durante l’inaugurazione della mostra, in cui l’artista si è inizialmente nascosto sotto il tappeto di velluto rosso (simbolo di potere e monarchia, ma anche di confine e ferita) che collega le due installazioni La conquista della terra e History of European Morals, libri-gogna dall’inequivocabile significato che trattengono due mani modellate con un impasto di resina e semi di denti di leone. Coperto dal tessuto e da un cumulo di pomodori in quantità equivalente al suo peso, si è faticosamente liberato trascinando con sé l’oppressivo carico di frutti per poi scagliarli a uno ad uno contro una riproduzione ingrandita a parete del quattrocentesco Atlante di Tolomeo (che omette l’ancora sconosciuto continente americano) concentrando i propri colpi sulla zona corrispondente all’Europa come se la volesse cancellare. L’impossibile eliminazione è sterile quanto l’ingannevole convinzione che la Terra fosse piatta e terminasse nell’ignoto; la somma di fraintendimenti e visioni circoscritte che si scontrano nell’azione genera un corto circuito semiotico in cui l’arma (il pomodoro) è consustanziale al suo obiettivo (la carta geografica tracciata usando il concentrato di pomodoro come inchiostro). Le inestricabili dinamiche della storia ritrovano così la propria reale unità e interdipendenza materializzando la riflessione con cui Umberto Eco concludeva un suo saggio sull’immigrazione: “se vi piace sarà così, se non vi piace sarà così lo stesso”.

Info:

Emilio Rojas. The Lions Teeth And/Or The World Was Once Flat.
26 gennaio – 18 marzo 2017
GALLLERIAPIÙ
Via del Porto 48 a/b Bologna